Tale questione è di fondamentale rilevanza per tutte le imprese le quali devono chiedersi, in ogni momento della loro vita, se convenga realizzare internamente una certa attività o processo oppure se sia più vantaggioso rivolgersi all’esterno.
Se infatti l’outsourcing si riferisce all’inversione di una precedente decisione con cui si internalizzava qualcosa, l’insourcing ribalta la precedente scelta di procurarsi qualcosa dall’esterno.
Solitamente le imprese devono affrontare questa domanda se esternalizzare o meno in particolari momenti:
– Viene sviluppato un nuovo prodotto/servizio così che si determina una modifica sostanziale rispetto a precedenti situazioni in termini di costi, competenze e logistica.
– La performance del fornitore attuale viene giudicata insufficiente; si pone quindi l’esigenza di valutare se eseguire internamente l’attività, ricercare nuovi fornitori o modificare la relazione per esempio avviando una partnership più strutturata e fondata su obbiettivi comuni.
– Ristrutturazione aziendale; fase molto delicata e complessa dove ci si pone la domanda su che cosa ci si voglia focalizzare veramente.
– Cambi nella domanda; in periodi di forte aumento della domanda normalmente le imprese esternalizzano, l’opposto in caso di cali della stessa.
Resta chiaro come la decisione se ricorrere o meno all’esternalizzazione, per le caratteristiche intrinseche di questo fenomeno, si distacchi nettamente da una più semplice scelta make or buy che va ad implicare principalmente un ragionamento di costi.
Si tratta infatti di una decisione estremamente complessa che deve prendere in considerazione una moltitudine di fattori sia a livello strategico che operativo, tenendo a mente il fatto che il primo potenziale elemento da prendere in esame e valutare è l’impresa stessa, la quale potrebbe essere in grado di realizzare l’oggetto dell’analisi meglio di chiunque altro. Nella pratica bisogna dire che è tuttavia frequente che invece di un’attenta e precisa ricerca siano le scelte passate, i piani di lungo termine e le specifiche policies aziendali ad avere la meglio sulla decisione. Proprio alla luce di ciò notiamo come a livello storico ci siano state imprese che, contro intuitivamente, si procuravano prodotti/servizi dall’esterno anche se avrebbero potuto essere realizzati meglio da loro stessi così come altre che decidevano di internalizzare a prescindere. L’insieme di fattori a livello strategico-organizzativo attengono ad un orizzonte temporale più lungo e vanno a considerare mutazioni dell’ambiente in cui opera, cambiamenti nei trend di mercato, ciclo di vita del settore, nelle strategie dei competitors, nelle politiche governative e nell’andamento futuro delle tecnologie.
Occorre chiedersi in che direzione queste ultime andranno e se esternalizzando ci si priverà di componenti che diverranno indispensabili in futuro per raggiungere e mantenere un vantaggio competitivo. Al più basso piano operativo figurano numerosi elementi tra cui in primis l’analisi sui costi che deve confrontare costi cessanti e costi sorgenti che si avrebbero nell’implementare la strategia. Importanti sono anche il controllo sul mantenimento degli standard qualitativi e i fornitori da coinvolgere in termini di loro know-how, affidabilità e volumi da produrre. I tre studiosi David L. Burt, Donald Dobler e Stephen N. Starling nel loro libro “World class supply management” nel 2003 propongono una funzionale regola generale secondo la quale si dovrebbero esternalizzare prodotti, servizi ed operazioni che non rientrano nelle seguenti aree: quelli che possono essere definiti critici per il successo dell’impresa (core competencies) tenendo conto anche della percezione del valore del cliente, quelli che attengono ad aree che l’impresa vorrà sviluppare in futuro in accordo con i suoi piani di lungo termine e quelli che richiedono un grado così elevato di specializzazione e competenze tale che il numero di fornitori affidabili è estremamente limitato. Per capire quindi quali processi esternalizzare è prima necessario comprendere quali sono le competenze distintive del proprio business; questa è un’operazione da compiere a monte essendo altamente sconsigliato smettere di svolgere attività rientranti nell’area chiave. Ogni organizzazione presenta delle core competencies, idea rintracciabile per la prima volta nell’analisi di Selznick (1957) nonché successivamente nel 1990 in un articolo dell’università di Harvard di C.K Prahalad e Gary Hamel dai quali si evince come esse siano conoscenze limitate, tacite ed esplicite e quelle che di fatto garantiscono al business la sopravvivenza ed il prosperare nel tempo. Per tacite si intendono quelle frutto dell’esperienza del personale e non espressamente manifeste al contrario di quelle esplicite che invece sono sotto forma di codici, procedure e regole. Paragonando l’organizzazione ad un albero esse sono le radici che sorreggono tutto il resto. Devono essere fonte di unicità e differenziazione nonché devono restare tali in futuro come dimostra l’approccio di questi due studiosi, convinti che quello che oggi è ritenuto raro ed inimitabile non lo sarà altrettanto un domani. Vanno pertanto costantemente monitorate e migliorate con la pratica e l’esperienza, cosa possibile solo se sotto il proprio controllo e quindi internalizzate.
Le core competencies si manifestano nel core business cioè il nucleo centrale di quello per cui è nata e di cui si occupa l’impresa che può anche non essere solo uno ma consistere in diverse aree di business. È chiaro pertanto come tramite un’analisi di questo tipo si riesca ad evitare di dismettere qualcosa di altamente strategico per l’impresa, arrecandosi gravi danni nell’orizzonte temporale lungo, ed invece ad affidare all’esterno qualcosa di non veramente centrale ed indispensabile nell’organizzazione.
Quindi, dopo aver stabilito quali siano i processi core e quali no, è utile soffermarsi sui secondi chiedendosi quali tra di essi siano maggiormente rilevanti. È possibile fare una distinzione sulla base di due criteri: quelli che l’impresa stessa giudica che forniscano un valore maggiore al cliente e quelli che sono cruciali per il successo di imprese competitors. Questi due aspetti sono uniti per mezzo del benchmarking competitivo che ci permette di comprendere su quali dei processi si basa la maggior parte del valore aggiunto creato per gli acquirenti, e come noi li stiamo svolgendo rispetto ai competitors in termini di performance. I concorrenti scelti sono quelli che li svolgono in maniera migliore nel settore in questione. Si tratta di un procedimento matematico che moltiplica due valori di cui uno è un punteggio sulla nostra performance rispetto agli altri, mentre l’altro è un numero tanto più grande quanto più quel processo è significativo in termini di valore creato. Il risultato evidenzia il livello raggiunto dalle varie competenze in relazione al valore aggiunto per il cliente e leadership dell’impresa nel gestirle. Da qui deriva la consapevolezza di dove dovremmo migliorare magari proprio affidandoli a specialisti esterni più esperti di noi.
Notiamo come sull’asse delle ordinate sia presente la dimensione della criticità del processo per il business ovvero la sua importanza in termini di vantaggio competitivo; se infatti fornisce un notevole valore aggiunto al cliente ed è fonte di distinzione per l’impresa, dovrebbe essere trattato con grande attenzione. Sull’asse delle ascisse troviamo invece la capacità relativa nello svolgerlo rispetto ai concorrenti. Farebbe propendere senza troppe difficoltà all’outsourcing una situazione in cui competenze che aggiungono poco valore siano gestite meglio o ugualmente dai competitors, dato che non si va a pregiudicare nulla dal punto di vista della competitività ma solo potenzialmente a recuperare un gap esistente dovuto proprio ai diversi risultati nella loro gestione. Ben più complesso il caso in cui sono competenze significative per il valore creato che però vengono governate peggio dall’impresa in questione; sarebbe infatti difficile scegliere se integrare verticalmente, investendo molto su di esse, o esternalizzarle sempre al fine di colmare questo gap tra attese dei clienti e risultati raggiunti. Allo stesso modo è estremamente complesso prendere una decisione nell’eventualità ci si trovasse nel quadrante diametralmente opposto a quello appena descritto.
Una possibile strategia per risolvere l’incertezza di questi due quadranti può essere quella di scegliere di affidare all’esterno tutti quei processi non critici, sebbene si sia in grado di svolgerli ottimamente (quadrante in basso a destra), e di cominciare a svolgere internamente, in seguito a investimenti di rilievo, quelli che generano un grande vantaggio competitivo ma che fino a quel momento erano stati svolti in maniera inadeguata.
Se invece si ha a che fare con processi e competenze sottostanti che vengono svolti in maniera eccellente e determinano un’importanza notevole in ottica cliente finale, nonostante alcuni isolati casi che mostrano il contrario, bisognerà propendere necessariamente per l’insourcing. L’integrazione verticale converrà dunque all’aumentare della leadership nel gestire quelle competenze e dell’importanza delle stesse. In conclusione seguendo quest’ordine nell’analisi, si potranno individuare in primis le competenze core, su cui puntare totalmente all’interno, e poi in relazione alle caratteristiche delle altre tipologie di competenze ragionare se convenga procedere con l’integrazione verticale o l’outsourcing.
Credits: Alessandro Rollo
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